Manuale di sopravvivenza alla retorica del vino (2a parte)
Parole che non ce la fanno più (segnalate da voi).
E’ sempre lei, ancora perplessa davanti alla retorica del vino
Avete scritto, avete colpito nel segno. E allora eccoci: secondo capitolo del piccolo manuale per restare sani di mente davanti al lessico indistruttibile del vino. Stesso tono del primo: leggermente acido (ma non volatile), ironico, costruttivo. Perché a furia di ripeterle, certe parole non significano più niente. E quando il linguaggio si svuota, si svuota anche il bicchiere. O almeno la curiosità di berlo.
Resilienza
Parola bellissima in ecologia, seducente in psico-coaching, perfetta nei piani aziendali. Nel vino è diventata la foglia di fico di qualsiasi discorso sul clima: “i nostri vigneti sono resilienti”. Resilienti a cosa, esattamente? Grandine a giugno, peronospora a luglio, siccità a ferragosto, nubifragi a settembre: questo è il menù reale, non una metafora. Gli organismi internazionali del vino lo ripetono: il settore è dentro un ciclone climatico e serve adattamento concreto, non aggettivi deodoranti. Se proprio volete usare la parola, fatele compagnia con i fatti: portainnesti, gestione della chioma, suoli coperti, scelta dei cloni, anticipo o ritardo vendemmia, sensoristica in campo. Senza azioni, “resilienza” è una calamita da frigo.
Come parlarne meglio: “Quest’anno abbiamo cambiato portinnesto per tollerare meglio lo stress idrico, aumentato le inerbiture per proteggere il suolo e rivisto la data di vendemmia.” Non è poesia, ma è credibile. E fa onore al lavoro.
Biodiversità
“Difendiamo la biodiversità!” (segue foto del filare con due margherite di numero). In agronomia il termine non è un soprammobile: include la varietà genetica, di specie e di ecosistemi che sostiene la produzione e la stabilità dei sistemi agricoli. È roba seria, non un vasetto d’erbe aromatiche davanti alla cantina. La FAO la definisce come l’insieme della varietà e variabilità di piante, animali e microrganismi nei e intorno ai sistemi produttivi; in vigna la si “fa” con siepi, aree rifugio, corridoi ecologici, mix colturali, coperture vegetali gestite bene, e riduzione degli input.
L’OIV parla anche di biodiversità funzionale: quella parte che ha un’utilità misurabile per l’agricoltore (impollinazione, controllo dei parassiti, qualità del suolo). Ecco: misurabile. Non un hashtag.
Come parlarne meglio: “Abbiamo aumentato del 20% le superfici non produttive (siepi, fossi, fasce fiorite) e monitoriamo impollinatori e predatori naturali.” Se lo misuri, esiste.
Il nonno (o trisavolo) come scudo umano
Questo lo avete segnalato in tanti: il richiamo disperato al nonno di turno. Funziona così: c’era una damigiana in cantina nel 1927? Allora - tac! - “Grande Storia della Cantina”. Il nonno diventa capostipite di una saga dinastica di cui lui, poveretto, non sapeva nulla. Storicità gonfiata, genealogie elastiche, araldica e quarti di nobiltà improbabili, foto in seppia usate come elisir di credibilità.
Capite il cortocircuito? Più si spinge sulla leggenda, meno si racconta il presente. E il presente è dove succede la qualità. Non tolgo nulla al nonno (lo benedicano gli dei), ma la narrativa “nonno ergo valore” è stanca come un tappo secco.
Come parlarne meglio: tenete il nonno, ma dategli un ruolo preciso e verificabile (“Nel ’54 impiantò i primi filari su questo poggio, oggi usiamo ancora quel clone”), poi tornate al 2025: scelte agronomiche, persone e responsabilità di adesso. Il mito senza metodo è zucchero a velo.
Fin qui i tre “must” che mi avete chiesto. A seguire, aggiungo qualche altro termine che ormai non ce la fa più. Non erano nel primo capitolo; li porto qui con guanti di velluto e una punta di sarcasmo.
Viticoltura “eroica” (ovunque)
Parola che commuove, e a ragione quando è vera. Ma oggi “eroico” lo leggo anche per colline gentili dove l’eroismo massimo è trovare parcheggio a settembre.
Esiste una definizione tecnica: il CERVIM considera eroica la viticoltura che ricade almeno in una di queste condizioni: pendenza >30%, altitudine >500 m s.l.m., terrazzamenti/gradoni, piccole isole. Se non ci siete, forse siete “bravi”, “ostinati”, “tenaci”. E va benissimo così. “Eroico” no.
Come parlarne meglio: “Terreni ripidi su gradoni di pietra, pendenze oltre il 30%: tempi lunghi, costi alti, paesaggio intatto.” Se ce l’avete, raccontatelo con concretezza. Se non ce l’avete, chiamatela “collina”. È più onesto (e non sminuite chi davvero lavora appeso a una fune).
“Naturale” (e il cugino “Metodo Nature”)
“Vino naturale” è un termine bellissimo e scivoloso. In UE non esiste una categoria giuridica unificata; in Francia, invece, c’è una charter privata riconosciuta - Vin Méthode Nature - che stabilisce i requisiti: uva 100% da agricoltura biologica, vendemmia manuale, fermentazioni con lieviti indigeni, zero (o quasi) additivi enologici. È un tentativo serio di dare contorni a una parola tanto amata quanto sfruttata. In Italia, “naturale” resta un campo semantico aperto, che spesso finisce per significare tutto e niente.
Come parlarne meglio: se fate scelte “naturali”, elencatele. Niente incenso, niente dogmi. Spiegate i processi, non i dogmi.
“Senza solfiti aggiunti” (ma poi leggiamo “contiene solfiti”)
Altro tormentone. Il punto chiave: in UE si scrive “contiene solfiti” quando il totale supera i 10 mg/L; è un obbligo pensato per chi può avere intolleranze. Anche senza aggiungerli, un vino può contenere solfiti prodotti naturalmente dalla fermentazione e superare quella soglia, perciò l’avvertenza scatta lo stesso. È qui che il messaggio “senza solfiti aggiunti” genera confusione: sembra dire “solfiti zero”, ma non è così. E i limiti legali massimi, per capirci, restano molto più alti (diversi a seconda di stile e residuo zuccherino). Quindi: comunicatelo con precisione oppure evitatelo. Meglio un’analisi in etichetta (on-line, QR) che un claim ambiguo.
Come parlarne meglio: “Nessun solfito aggiunto; solfiti totali 14 mg/L (misura di laboratorio X, data Y).” Fine degli equivoci.
“Autoctono” (come se bastasse dirlo)
Se “autoctono” fosse sinonimo di qualità, il mondo sarebbe un Eden di etichette impeccabili. Invece è solo una caratteristica (interessante) che va spiegata: dove è rimasto, perché, con quali espressioni sensoriali, come lo coltivate oggi. “Autoctono” usato da solo è un mantello di Superman messo su una sedia. Fa scena, ma non vola.
Come parlarne meglio: “Nerello Mascalese su sabbie vulcaniche, allevato ad alberello; cloni storici, densità alta, rese contenute.” Questa è una storia, non una parola totem.
“Iconico”, “identitario”, “unico”
Tre parole che, usate insieme, compongono la trilogia dell’autoincensazione.
“Iconico” dovrebbe essere detto dagli altri, non da chi vende. “Identitario” è un’altra parola salvagente usata quando si ha paura di dire come si riconosce un vino (uva, suolo, mano). “Unico” è matematicamente falso in un mondo con 7,8 miliardi di persone e milioni di ettari vitati. Non fa male a nessuno, ma fa bene a pochi.
Come parlarne meglio: togliete l’aggettivo e aggiungete un dettaglio: “Solo acciaio, 12 mesi sui lieviti, nessun legno.” È meno glam, più utile.
Chiusura (con pacca sulla spalla)
Non si tratta di fare i maestrini. Io stesso inciampo in questi tic, ogni tanto. È il mercato, è la fretta, è la comodità delle parole elastiche, al silicone. Ma proprio perché il vino è fatica vera, e gioia vera, merita un linguaggio migliore: meno tappeti rossi, più scarponi. Meno “resilienza”, più come vi state adattando. Meno “biodiversità”, più dove, quanta, con che risultati. Meno “il nonno ha iniziato”, più “noi oggi facciamo”.
Se poi ci scappa ancora un “minerale”… vabbè, alziamo gli occhi al cielo e beviamo. Ma almeno promettiamoci di dire di che pietra è fatto.
Brindiamo a parole più precise—che fanno venire voglia di stappare. Senza sciabola, grazie.