Manuale di sopravvivenza alla retorica del vino

Ovvero: le parole invecchiate male.
Dopo vent'anni nel mondo del vino, alcune parole e rituali ripetuti all'infinito producono un elenco semiserio di ciò che non tollero più.

Perplessa anche lei, davanti alla retorica del vino?


Vent'anni a parlare di vino, vent'anni a sentire le stesse litanie. Amo il vino, ma certe frasi fatte e tic ormai mi fanno sbadigliare (quando non mi fanno innervosire). Nel 2005 aprivo questo blog pieno di entusiasmo; oggi, nel 2025, mi ritrovo ancora gli stessi mantra comunicativi, il solito disco rotto. Basta! Lasciatemi sbottare: alcune cose del vino proprio non le sopporto più.

Mi direte che sono un brontolone, ma uno sfogo ogni tanto ci vuole. E allora ecco la mia lista semiseria delle cose del vino che mi hanno ufficialmente stufato. In ordine sparso e senza pretesa di completezza, giusto per farsi due risate (un po' amare) tra appassionati.

Bollicine

All'inizio la trovavo quasi simpatica: un nomignolo affettuoso per gli spumanti. E invece col tempo mi ha stufato, e non solo a me: persino Maurizio Zanella, patron di Franciacorta, ha ammesso che inventare il termine "bollicine" è stato un errore. Suona frivolo, infantile, riduttivo, toglie importanza a prodotti di alta qualità. "Bollicine" fa pensare all'acqua gassata, non certo a Champagne o Franciacorta. Già nel 2010 scrivevo su Aristide: "piantiamola di chiamarle bollicine". Confermo oggi come allora.

Chiamiamo ogni vino col suo nome (Champagne, Franciacorta, Trentodoc, metodo classico, spumante, ecc.) e diamo ai grandi brut il rispetto che meritano. Se proprio dovete dire "bollicine", fatelo in contesti scherzosi, sapendo però che a qualcuno (tipo il sottoscritto) sale l'orticaria.

Sabrage

La sciabolata allo Champagne (sabrage): fa scena e ha il suo fascino storico, ma diciamocelo - è una cavolata. Pare che gli ufficiali napoleonici aprissero così lo Champagne per festeggiare l’essere vivi, ma dal punto di vista pratico è un metodo pessimo per stappare.

Risultato? Vino ovunque e vetri dappertutto. Guai a improvvisarsi: ho visto gente farsi male e lampadari decapitati dal tappo volante. E ora sui social c'è chi apre bottiglie con qualunque oggetto, dal coltello da cucina allo smartphone. Perché?!

Ogni volta che vedo spuntare una sciabola a una festa penso: "Passa qua, la apro io 'sta bottiglia". Romantico, OK. Ma se hai una bottiglia speciale meglio versarla nei calici che sprecarla in acrobazie.

Tradizione e innovazione

La coppia di parole più abusata nella comunicazione del vino. Ogni cantina ormai sente il dovere di infilare queste due paroline magiche da qualche parte, e messe così non dicono nulla. Quante volte ho letto frasi tipo "La nostra cantina unisce tradizione e innovazione per offrire vini di qualità tramandati da generazioni". Appena ne leggo una del genere, mi viene il latte alle ginocchia. È una formula così generica da non distinguere nessuno.

Certo, tradizione e innovazione sono ottime cose entrambe, ma se le citi solo per fare scena, senza spiegare come, restano slogan vuoti. Non sarebbe meglio spiegare come innovate e quali tradizioni rispettate, invece di rifugiarsi in questo passepartout logoro? Risparmiate fiato: l'abbiamo già sentita troppe volte.

Espressione del territorio

Il mitico "territorio". Ogni vino ormai deve essere "espressione del territorio", "figlio del territorio", "specchio del terroir" e via dicendo. Bel concetto, per carità, ma inflazionato. Se ogni bottiglia viene presentata come fedelissima al territorio, questa formula non significa più nulla. È un cliché che suona bene ma non dice niente: ti illudi di bere un paesaggio... e invece bevi e basta.

Ci credo anch'io all'importanza del territorio, eccome. Proprio per questo mi infastidisce vederlo ridotto a slogan. Facciamolo parlare nel bicchiere anziché sbandierarlo in ogni comunicato, e inventiamo modi più freschi di raccontarlo. La prossima volta che leggo di una cantina "nel cuore di [zona vinicola a caso]" giuro che urlo. Quanti cuori ha questo territorio? Un po' di creatività quando parliamo di terroir, sennò addormentiamo il lettore.

Mineralità, la parola che piace a tutti (ma spiega ben poco)

La “mineralità” piace perché suona elegante, un po’ tecnico, quasi iniziatico. Però spiega poco. I minerali del suolo non svolazzano nel calice: gli ioni non sono volatili, non profumano da soli. Quello che chiamiamo “minerale” è un cappello semantico assai comodo (direi: quasi pigro) per cose diverse: acidità alta, sensazione salina, frutta trattenuta, asciuttezza gustativa, a volte note flinty da lieve riduzione.

Una parola, molti significati. Troppi.

Meglio tradurla in dettagli concreti. Naso: pietra bagnata, agrumi nitidi, gesso (e sì, la “pietra focaia” è spesso cantina, non geologia liquida). Bocca: lama acida, linea salina sui lati della lingua, tatto gessoso che asciuga e ripulisce. Finale: allungo secco, ritorni salini, erbe. Niente mare in bottiglia, niente cucchiaini di cava: sono solo immagini, non ingredienti.

Regola pratica: se scrivi “minerale”, incatena subito tre chiodi sensoriali (naso, bocca, finale). Ancora meglio: evita proprio il salvagente semantico e usa direttamente quei tre chiodi. Provate il gioco a tavola: per cinque minuti “minerale” è vietato. Vedrete che spuntano parole più utili e la testa del lettore si orienta verso sensazioni reali, non verso la parola magica. Chiamatela come volete - io la chiamo precisione gentile: tre dettagli veri battono una parola sola dieci a zero.

Passione

La famigerata "passione". Pare che nessuno faccia vino senza sbandierare questa parola. "Facciamo vino con passione", "è la nostra passione di famiglia", "ci guida la passione per il territorio"... e avanti così. Beh, ci mancherebbe la passione, no? È il minimo sindacale per chi fa un lavoro duro come il vignaiolo. Non pretendete una medaglia solo perché non odiate il vostro mestiere. L'abuso di "passione" l'ha svuotata di significato: ce l'hanno tutti e dirlo non distingue più nessuno. Invece di ripeterlo a ogni riga (lo diamo per scontato, grazie), raccontate semmai un episodio che lo dimostri, o la scintilla che vi ha fatto innamorare del vino. Quella sì che è una storia interessante.

"Passione" da sola ormai non dice più nulla.

Qualità ed eccellenza

Qualità ed eccellenza: la retorica più diffusa. Chi direbbe mai "il mio vino è mediocre"? Nessuno. E infatti tutti proclamano "qualità superiore" di qua, "eccellenza" di là, al punto che non ci credi più. Se tutti gridano alla massima qualità, come li distingui? "Eccellenza" poi dovrebbe essere qualcosa di davvero sopra la media, invece la usano come prezzemolo ovunque e ha perso sapore. Diciamolo: non tutte le cantine possono essere eccellenze, altrimenti la parola non ha senso.

Eppure comunicati e siti pullulano di "prodotti di eccellenza", manco fossimo circondati da premi Nobel del vino. Un consiglio spassionato: lasciate che siano gli altri (clienti, guide, critici) a dire se siete eccellenti. Voi intanto raccontate cosa fate di speciale, questo sì. Ma auto-dichiararsi "eccellenza" suona ridicolo, così come riempire ogni riga di "qualità". La qualità si deve dimostrare, non proclamare. Se leggo "qualità" tre volte in un paragrafo, mi sorge il dubbio: manca proprio la qualità... comunicativa. O no?

Sostenibilità

Sostenibilità: la parola d'ordine degli ultimi anni. Giustissimo, nulla da dire sul concetto - dobbiamo tutti impegnarci per un vino più "green". Ma ormai qualsiasi azienda si proclama sostenibile, anzi Sostenibilissima™. Tutti a decantare amore per l'ambiente: energia solare, viticoltura bio, rispetto della natura ovunque. Ottimo, bravi.

Però attenzione: come per la qualità, occhio all'inflazione di termini. Dire "siamo sostenibili" è facile; farlo davvero un po' meno. Il rischio? Il solito: tanta fuffa e poca sostanza. Il greenwashing è dietro l'angolo. Vorrei vedere più fatti concreti e meno medaglie autoincise sul petto. Pannelli solari, meno chimica, più biodiversità: bene, raccontateli. Ma non riduciamo "sostenibilità" all'ennesimo slogan per lucidarsi l'immagine. Il pubblico queste cose le fiuta eccome, e finisce per non dar più peso a nessuna dichiarazione (nemmeno a quelle sincere). Un boomerang comunicativo.

La lista potrebbe continuare, ma mi fermo. Continua tu, se vuoi, utilizzando i commenti qui sotto.

Forse sto diventando io un po' intollerante col tempo... chissà. Resta il fatto che il vino merita di essere comunicato con più creatività e onestà, e meno frasi fatte. Dopo vent'anni ne sono convinto: la comunicazione fotocopia annoia e allontana, mentre le storie genuine avvicinano le persone al vino. Brindiamo quindi a chi saprà trovare parole nuove e vere per raccontare la prossima bottiglia. Io intanto mi verso un calice (tranquilli, niente sciabola) e lo alzo alla vostra salute!

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