“Meeting of the Minds” in California, vecchie vigne di fronte al futuro

Dalla ricerca che certifica l’età delle viti alla chiamata alle armi per i più giovani: l’Old Vine Conference 2025 ha messo il punto, e una virgola.

Vecchi alberelli sull'Etna

Vecchi alberelli sull'Etna

Tre numeri, per cominciare senza giri di parole: 5 giorni, 300 presenze online e quasi 400 in sala. Sonoma, Napa, Lodi. La California ha ospitato il “Meeting of the Minds” dell’Old Vine Conference, un meeting internazionale fisico e virtuale dedicato a seminari, degustazioni, dibattiti, visite ai vigneti e discussioni dedicate alla conservazione e alla promozione dei vecchi vitigni e dei vini che producono, il tutto accompagnato da quel retrogusto di decisioni che non puoi più rimandare.

La settima edizione della conferenza mondiale, la seconda ad essere tenuta in presenza, ha rispecchiato il crescente slancio internazionale del movimento a favore dei vecchi vitigni. I partecipanti provenienti da 14 paesi hanno esplorato i vecchi vigneti della California settentrionale, hanno partecipato a due giorni di conferenze e si sono riuniti per la degustazione e la cena di gala dedicata ai vini da vecchi vitigni, in collaborazione con il Global Buyers Marketplace, evento biennale del Wine Institute of California.

Il cuore della storia è semplice: le vigne vecchie non sono un feticcio romantico. Sono uno strumento, una strategia. E ora abbiamo più frecce nella faretra per dimostrarlo. Il Consejo Regulador de la DO Campo de Borja (Spagna) ha presentato una ricerca di quattro anni che fa due cose che mancavano: dice che il vino da viti vecchie di Garnacha ha più capacità di invecchiare e un profilo aromatico più fedele al luogo, e propone un metodo scientifico per certificare l’età delle viti quando gli archivi sono un colabrodo. Tradotto: meno chiacchiere e romanticismo, più misure, finalmente.

Sembra una svolta burocratica, non lo è. Se posso certificare l’età, posso costruire una categoria chiara, con regole, e chiedere al consumatore di riconoscerla sullo scaffale. E se collego l’età a elementi sensoriali concreti, discuto di qualità, non di nostalgia.

Questo cambia la conversazione, dal “che bello il vino del nonno” al “questo vino sta in bottiglia meglio e parla di quel suolo lì”.

Poi c’è il pezzo umano, che spesso noi del vino lasciamo per ultimo, come il caffè offerto ma tirato via. Rosa Kruger, presidente e fondatore dell'Old Vine Project South Africa, ha detto la cosa più ovvia e più trascurata: non esistono vigne vecchie senza persone che le custodiscano.

Servono scuole per i lavoratori in vigna, passaggi di conoscenza che non si perdano al primo cambio di stagione, salari che valgano la fatica. La sostenibilità sociale non è un’appendice, è la vite madre. Perché se nessuno resta in vigna, le radici restano sole, e una vite sola, vecchia o giovane, è un investimento a perdere.

Sul fronte mercato, siamo messi così: il trade ha capito. I sommelier, gli importatori, i giornalisti, tutti dicono “vecchie vigne uguale autenticità, qualità, storia”. I consumatori, molto meno. Non è colpa loro. Gli abbiamo raccontato storie lunghe e dettagli tecnici, ma senza un’etichetta chiara, una didascalia netta, si perdono nel rumore. Il lavoro da fare è spietato: età in etichetta quando si può provarla, spiegazioni brevi, ripetute, visuali. L’algoritmo della fiducia è noioso, ma funziona così.

C’è stato anche un momento quasi punk. Tegan Passalacqua, membro fondatore della Historic Vineyard Society, ha lanciato l’idea più semplice e più sovversiva: aprite una bottiglia di Zinfandel a qualcuno sotto i trent’anni e raccontategliela. Non una masterclass, una bottiglia. Una storia. Un bicchiere tra amici. Odiate i processi a imbuto quanto volete, ma questo è l’unico che non tradisce mai: qualcuno ti versa qualcosa di buono e te ne parla con gli occhi accesi. È marketing? Sì. È anche la base di una cultura. Noi italiani possiamo capirlo bene: non c’è Barbera o Aglianico che sia cresciuto senza tavolate e chiacchiere di paese.

Italia, presente. Non per fare l’elenco della spesa, però la presenza dei nostri, da Vinchio Vaglio a Feudi di San Gregorio, Borgogno, Villa Bogdano 1880, conta (qui l’elenco delle cantine italiane già associate). Conta perché abbiamo un patrimonio di vecchie vigne enorme, spesso lontano dai riflettori giusti, e qui il teatro c’era. Se mettiamo insieme metodo, trasparenza e una comunicazione meno reverenziale, possiamo affrontare l’argomento senza inciampare nell’agiografia del “come una volta”. Le volte che contano sono quelle che stanno davanti, non dietro.

Cosa mi porto a casa, in tre righe storte. Primo: la categoria “old vine” può stare in piedi solo con regole chiare e verificabili. Senza, è retorica. Secondo: il valore sensoriale c’è, ma va messo in scena con precisione, non con violini. Terzo: il pubblico giovane non è allergico alle storie lunghe, è allergico alla noia. Perciò diamogli storie brevi e ripetibili, e poi, se vuole, trova lui la porta per entrare più a fondo.

Una digressione, permettetemela. Parliamo sempre di resilienza, parola abusata, però le vecchie vigne sono davvero una lezione pratica: ce l’hanno fatta perché qualcuno le ha ascoltate, non perché sono “forti” per magia. Radici profonde, sì, ma soprattutto tempi diversi, rese diverse, trattamenti diversi. Non sono l’eroe che salva tutte le denominazioni dalla crisi climatica, ma sono un laboratorio utile. E i laboratori servono se si prendono appunti. Ecco, prendiamoli e mettiamoci al lavoro.

In chiusura, un avviso al navigante di cantina. Non limitatevi a mettere “old vines” in etichetta e a incrociare le dita. Fate almeno tre cose:

  1. dichiarate l’età media e la fonte del dato [catasto, perimetrazione, metodo usato],

  2. spiegate in 30 parole cosa cambia nel bicchiere,

  3. e firmate un impegno sul lato umano, persone e salarizzazione.

    Non è marketing woke, è manutenzione del futuro. Quando tra dieci anni uno aprirà la vostra bottiglia e dirà “sa di quel posto lì”, saprete che non era una rivendicazione, era un patto.

La California ci ha messo davanti uno specchio grande. Dentro, si vede di tutto: glamour, ricerca, ideali, problemi. Anche noi italiani ci siamo, con le nostre vigne di una certa età e i nostri dubbi storici. Bene così. Le vecchie vigne non chiedono riverenza, chiedono responsabilità.

E una certa dose di ironia, che non guasta mai quando si parla di cose serie con un bicchiere in mano.


Cos’è la Old Vine Conference

La Old Vine Conference è un'organizzazione senza scopo di lucro registrata nel Regno Unito e fondata nel 2021, il cui obiettivo è quello di creare una categoria globale per i vini provenienti da vigneti storici. La Old Vine Conference lavora per creare una rete globale volta a salvaguardare i vecchi vitigni di valore qualitativo, culturale ed ecologico, mettendo in contatto, educando e ispirando l'industria vinicola mondiale attraverso conferenze, ricerche, partnership, degustazioni e visite sul campo.

La persona di riferimento della OVC in Italia è Michèle Shah la quale cura il ruolo di Regional Ambassador.
Shah ha promosso e sostenuto i vini italiani per più di 30 anni. Gli ambasciatori regionali della Old Vine Conference sono importanti sostenitori del patrimonio e dei vini delle vecchie vigne. Tra di loro ci sono viticoltori, enologi, scrittori di vino, Masters of Wine e professionisti del marketing.

Qui puoi leggere un mio precedente post sulla OVC:
The Old Vine Conference: azioni globali per la salvaguardia delle viti antiche

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