Vino italiano nella tempesta perfetta: chi si salva davvero

Dal convegno di Verona una verità semplice: il ciclo economico girerà, ma non per tutti. E a decidere non sarà la fortuna, saranno i modelli di impresa.


Consumo globale pro capite di vino, birra e superalcolici - 1961-2022:
a quanto sembra, non è l’alcol il problema del vino


A Verona, il 14 novembre, non si è parlato di “congiuntura difficile” o “momento complesso”. Si è usata la formula corretta: tempesta perfetta.
Il convegno “2025, Il vino italiano nella tempesta perfetta: quali i modelli di business vincenti?”, è stato curato e organizzato da StudioImpresa Verona con il Dipartimento di Management dell’Università di Verona e l’Accademia Italiana della Vite e del Vino.

Al centro non c’erano storytelling, influencer, “territorio” a caso: c’erano i bilanci 2022–2024 di oltre mille cantine italiane, passati al setaccio dal Centro Studi Management DiVino di Luca Castagnetti.

È lì che si vede se una narrazione regge o no.

Scenario: il mare resta mosso, per anni

Mettiamola così: nel breve non arriva nessuna “ripartenza miracolosa”.
L’analisi di scenario presentata a Verona dice che siamo dentro un ciclo discendente dei consumi di vino, non in una buca momentanea. La possibile svolta, se arriva, viene collocata attorno al 2027, non al prossimo Vinitaly.

Nel frattempo succedono parecchie cose spiacevoli in contemporanea:

  • i consumi globali di vino rallentano, mentre spirits e birra resistono meglio;

  • l’inflazione degli ultimi due anni ha alzato il livello di difficoltà: energia, vetro, logistica, tassi di interesse;

  • il clima rende le rese più volatili, alcune zone iniziano a giocare in difesa anziché in attacco;

  • sul fronte “salute”, il vino è finito dentro l’attacco generalizzato all’alcol, senza troppe distinzioni.

Non è un problema solo italiano, questo va detto: è un quadro europeo, anzi globale.
La differenza è come ci arrivi. L’Italia ci arriva con un mix strano: una potenza produttiva enorme, mille modelli di impresa diversi, e una frammentazione strutturale che fa sembrare la Borgogna un monolite.

I numeri: il settore “tiene”, ma non tiene per tutti

L’analisi sui bilanci 2024, presentata a Verona e sintetizzata anche da Unione Italiana Vini - UIV, parte da una frase che rassicura: “il settore tiene”. I ricavi complessivi delle cantine crescono di circa +2 percento sul 2023, l’EBITDA medio risale sopra il 10 percento, il debito finanziario netto cala leggermente.

La foto di gruppo sembrerebbe questa: ci siamo fatti male, ma siamo ancora in piedi.

Poi, però, si zooma.

Dentro quella media:

  • una fetta importante di imprese ha ricavi in calo;

  • per molte la marginalità peggiora, anche con fatturato stabile;

  • i casi di EBITDA negativo aumentano rispetto al 2023;

  • diverse cantine scendono di categoria, da 10–20 a 5–10 milioni, da 5–10 a sotto i 5, insomma una piccola “riduzione di marcia” forzata.

Il punto non è che i numeri siano drammatici in assoluto.
Il punto è che il sistema non si muove insieme: mentre qualcuno usa il contesto per riposizionarsi, altri stanno lentamente erodendo capitale e reddito, continuando magari a vantarsi del “fatturato in tenuta”.

Se guardiamo solo la media, questa dinamica si perde. E infatti la media è l’arma di distrazione di massa preferita dalle comunicazioni ottimistiche.

Modelli di business: le faglie che contano davvero

La parte più interessante (e più scomoda) del convegno è quando i numeri vengono incrociati con i modelli di impresa. Qui il settore si spacca lungo alcune linee di faglia chiare.

Agricole contro industriali

Le aziende agricole, quelle che possiedono terra e gestiscono la filiera dalla vigna alla bottiglia, negli ultimi anni hanno corso di più delle altre: ricavi in crescita più robusta e EBITDA mediamente intorno al 20%, grazie anche alla fiscalità agevolata.

Il limite è scritto nel modello: cresci se hai terra, e la terra oggi costa cara. Quindi sì, il modello agricolo integrato funziona, ma solo se:

  • difendi margini alti nel tempo;

  • continui a investire, non ti limiti a “tirare a campare”;

  • accetti che non scalerai dimensioni come un gruppo industriale, e ti organizzi di conseguenza.

Dall’altra parte ci sono le aziende industriali/commerciali, spesso più leggere sugli asset, più esposte ai canali moderni e ai grandi buyer. Hanno margini medi più bassi, ma maggiore possibilità di scalare volumi, penetrare mercati diversi, giocare in modo più aggressivo su M&A e reti distributive. Sempre che sappiano usarle, queste leve.

Asset-strong contro asset-light (e la fine dei dogmi)

La spaccatura tra asset-strong (molti vigneti e immobili) e asset-light (poca terra, strutture leggere, più outsourcing) non è più dogmatica come dieci anni fa.

Lo schema che emerge:

  • le asset-strong mantengono un vantaggio di marginalità (EBITDA più alto);

  • le asset-light si muovono un po’ più velocemente sui ricavi, ma pagano qualcosa in termini di reddito operativo.

La tavola rotonda ha mostrato modelli ibridi molto più interessanti delle purezze ideologiche: gruppi come Argea che combinano marchi profondamente territoriali con brand più “industriali”, o casi asset-light dove la vera immobilizzazione è la rete storica di conferitori, non i vigneti iscritti a bilancio.

Morale: la domanda giusta non è “meglio light o strong?”, è “questo modello regge sul mio posizionamento, con questi prezzi, su questi mercati?”

Se la risposta è vaga, il problema non è il modello. È il piano.

Piccoli, medi, grandi: chi si salva davvero

Qui entra la dimensione.
L’analisi di Management DiVino 2024 lo dice in modo abbastanza diretto: le grandi imprese crescono e migliorano, le medio-piccole soffrono.

Detto più brutalmente:

  • i gruppi sopra una certa soglia di fatturato riescono a:

    • spuntare condizioni migliori su acquisti e distribuzione;

    • investire in tecnologia, dati, marketing;

    • reggere meglio il costo del denaro;

  • moltissime aziende sotto i 5–10 milioni, se non hanno un posizionamento fortissimo, finiscono strette tra costi in salita e clienti sempre più esigenti e concentrati.

Il “piccolo è bello” oggi ha senso solo se il piccolo è anche:

  • distintivo (non “uno dei tanti” della denominazione X);

  • fortemente orientato al margine, non al volume;

  • bravo a usare enoturismo e vendita diretta come leva reale di reddito, non come passatempo di cantina.

Se mancano questi tre pezzi, il piccolo non è bello: è fragile.

Politica di settore: cosa ti giochi a Bruxelles senza accorgertene

Ultimo blocco: la dimensione politica, che non è un contorno.
Mentre le imprese litigano sulle rese massime per ettaro, a Bruxelles e nelle sedi internazionali si gioca una partita più grossa: quella sulla percezione del vino come prodotto da “regolare” o da “promuovere”.

Al convegno di Verona è venuto fuori un messaggio chiaro, ripreso anche dai comunicati che hanno accompagnato l’analisi dei bilanci 2024: o il vino italiano si presenta con una linea condivisa su salute, promozione, potenziale produttivo, oppure sarà sempre in difesa, a rincorrere decisioni prese da altri.

Questo tocca direttamente:

  • i fondi OCM promozione (chi li prende, come, per fare cosa);

  • le norme su etichettatura, avvertenze sanitarie, eventuali restrizioni future;

  • la possibilità per le piccole imprese di usare il mercato UE come quasi-domestico, senza affogare in burocrazia quando vendono una cassa a un privato tedesco.

La linea di faglia culturale è semplice: se vince l’idea “qualsiasi consumo di alcol è dannoso”, viene meno anche la legittimazione per continuare a sostenere il settore con soldi pubblici. Se regge la distinzione tra abuso e consumo responsabile, allora il vino resta un settore da accompagnare nelle transizioni, non da colpire e basta.

Qui le imprese non sono spettatrici: l’unità (o la frammentazione) delle loro rappresentanze determina il peso al tavolo.

Cosa se ne fa una cantina di tutto questo?

Proviamo a ridurre la giornata di Verona a qualche messaggio operativo secco per chi sta in azienda e non ha tempo di perdersi tra grafici e slide.

  • Il ciclo girerà, ma non per tutti. Se stai erodendo margini, capitale e persone, il 2027 rischi di guardarlo dal bordo, non dal campo.

  • La dimensione serve, ma non è l’unica via. Puoi crescere (aggregazioni, reti, M&A), puoi specializzarti in modo radicale, ma restare “medio generico” è probabilmente la posizione peggiore.

  • I numeri non sono un optional. Se non sai quanto guadagni per linea, canale, mercato, non stai gestendo un’impresa, stai sperando. E la speranza non paga i mutui.

  • Il modello conta più del racconto. Agricola, industriale, coop, asset-light, asset-strong: tutti i modelli possono funzionare, ma non tutti funzionano ovunque e con chiunque. Serve una scelta esplicita, non “un po’ di tutto”.

  • La politica non è solo per le sigle. Quello che succede su salute, accise, OCM, accise cross-border entra dritto nel tuo conto economico. Fingere che sia un altro mondo è un lusso che il settore non ha più.

La tempesta perfetta, in fondo, è un gigantesco stress test.
Non premia chi ha più storytelling, premia chi ha un modello di business all’altezza del contesto.

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