Valpolicella Superiore, finalmente adulto
Affinamenti lunghi, legni usati, meno appassimento. Più territorio e più tavola.
L’altra sera, in una location che sa di storia e dolce vita come Villa de Winkels, c’era un bel po’ di Valpolicella radunata in sala. Una cinquantina di produttori, decine di etichette di Valpolicella Superiore, una folla che sa già cosa cerca e un’altra, più curiosa, che assaggia per capire.
Io ho fatto il mio solito percorso, campionatura larga, senza l’ansia del completista. Risultato netto: il Valpolicella Superiore ha cambiato marcia. Non a parole, nei bicchieri. E non parlo di dettagli marginali, parlo della scelta più importante che un produttore possa fare su questa tipologia, il tempo.
Il disciplinare chiede pazienza minima di dodici mesi, decorrenza dal primo gennaio dopo la vendemmia. È l’abc. Quello che ho trovato nei calici va ben oltre questo livello base. Molti Superiore sono rilasciati dopo affinamenti lunghi, quasi sempre con legni già usati e poi ulteriori mesi, spesso anni, in bottiglia. Il punto non è il feticismo del numero, è l’effetto nel bicchiere: vini più composti, più salati, con un’ampiezza gustativa che chiama il cibo. Eleganti, leggibili, senza quella gomitata di legno nuovo. Questo è il cambio di passo.
Chi segue queste pagine sa che non ho un pregiudizio contro l’appassimento, sarebbe ridicolo, siamo a Verona. Ma sul Superiore non è un obbligo, è una scelta. E sempre più cantine decidono di rinunciarci, vinificando uve fresche. Qui nasce la magia: più trasparenza del territorio, più naturalezza dell’acidità, più spazio alla sapidità. E chi, invece, usa una quota di uve leggermente appassite lo fa con mano leggera, in modo da non coprire la matrice territoriale. È lo spettro stilistico contemporaneo, una convivenza che allarga le possibilità a tavola e mette d’accordo scuole diverse.
Il Consorzio Valpolicella, dal canto suo, ha finalmente iniziato a spingere una narrativa meno centrata sul metodo e più sul territorio. Il Superiore come chiave di lettura contemporanea della Valpolicella, non come surrogato di Amarone o Ripasso. Il fatto che la stampa di settore stia rilevando questa evoluzione, e che a ogni tasting si vedano più Superiore “territoriali”, conferma che non è una moda, è una traiettoria. Tiene insieme mercato e identità, cioè esattamente ciò che serve ai rossi italiani oggi, con carte dei vini affollate e clienti che chiedono vini buoni con il cibo, non solo da meditazione.
Le annate assaggiate spaziavano dal 2022 al 2014. Range perfetto per capire il potenziale di affinamento, perché incrocia annate più fresche e annate più calde. Inoltrandosi nelle versioni più affinate (decisamente le più interessanti!) 2019 è già estremamente centrata, 2016 è la vecchia affidabile (grande annata, del resto), 2015 brilla se il lavoro in cantina ha mantenuto nervo e sale. 2017 più solare, 2018 più snella, dipende molto dai siti e dalle scelte.
Torniamo al come. Il legno. Visti tanti grandi formati e tanti secondi o terzi passaggi, finalmente. Meno vaniglia, meno arrosto, ancora frutto scuro ma finalmente sempre più colore e trasparenza fedeli a Corvina e Rondinella, e poi erbe, spezia fine. Il tannino diventa talco, la bocca si allunga. Quando poi il produttore aspetta due o tre anni di bottiglia, succede quell’aggiustamento di armonici che sposta l’asticella da buono a completo. Non tutti lo fanno, è un investimento vero, ma la differenza si sente. Alcuni rilasci 2019 oggi sono in bolla perfetta, altri 2017 si sono distesi, mostrando equilibrio e bevibilità che in gioventù non avevano.
E il tema appassimento, ribadisco, va preso per quello che è: una leva, non un dogma. L’appassimento è la spina dorsale di Amarone e Recioto, sul Superiore resta facoltativo. Per questo mi convince chi lavora il Superiore da uve fresche, soprattutto nei cru vocati e in altitudine. Vini più dritti, più gastronomici. Non è un’eresia, è letteralmente ciò che il disciplinare consente. È anche una risposta pulita alla confusione del consumatore medio, che spesso non distingue tra Ripasso e Superiore. Il primo è un vino di tecnica, il secondo può e deve raccontare il posto.
Valpolicella Superiore è una sotto-tipologia della Valpolicella DOC. Non è una DOC a parte. Ha regole proprie su resa, alcol e affinamento, e vive accanto alle altre facce della denominazione, Amarone, Ripasso, Recioto. Sapere questo lava via tante incomprensioni in sala e in enoteca. Evita l’effetto scaffale, dove Superiore e Ripasso si pestano i piedi. La comunicazione dovrebbe insistere proprio su questa differenza funzionale, Superiore come vino di territorio e di tavola, Ripasso come ponte verso la ricchezza amaroneggiante. Così si costruisce una gamma coerente e si smette di chiedere a un solo vino di essere tutto.
Un’ultima nota, che poi è il punto di partenza di questo post. Ho assaggiato un numero significativo di ottimi Superiore dal 2019 al 2015 che non hanno nulla da invidiare a rossi italiani molto più blasonati, per intensità e tenuta. Vuol dire che il lavoro nelle vigne sta maturando, che il manico di cantina si è alleggerito dove serviva, che la pazienza sta tornando di moda. La Valpolicella, quando non si fa distrarre, è capace di finezza tutta sua, quella spezia nera da Corvina, quella ciliegia scura, quella trama salata che a tavola fa godere. Se questo è il futuro prossimo del Superiore, lo voglio. Anzi, lo pretendo.
Chiudo con un consiglio molto semplice. Se siete appassionati, comprate due bottiglie uguali, una per adesso e una da riaprire tra due anni. Il tempo, quando il vino è ben fatto, è sempre un alleato.