Basta zoo: liberiamo il Recioto
Uve in appassimento, diventeranno Recioto della Valpolicella?
foto di © Silvano Rucci, SlowFood
Il Presidio Slow Food è una buona notizia. Ma arriva tardi. Adesso servono scelte scomode: in vigna, in cantina, sul mercato.
Ci siamo svegliati tardi. Il Recioto della Valpolicella diventa Presidio Slow Food e, per carità, bravi tutti. Bravo chi ci ha creduto, brave le prime sette cantine che ci mettono la faccia (Mizzon, Venturini, Roccolo Grassi, Corte Merci, La Dama, Giovanni Ederle, Novaia).
Però: stiamo parlando di un vino che regge sulle spalle millenni di tecnica e cultura. Non l’ultima moda da scaffale. Un padre “dimenticato” che si è visto scippare il palcoscenico dal figlio nato per caso, l’Amarone, e poi mandato a fine cena con i dessert a fare la comparsa. Oggi lo “proteggiamo” come fosse una specie in via di estinzione. Ecco: no. Il Recioto non va messo in gabbia. Va liberato.
Il comunicato Slow Food ricorda la storia, l’appassimento, la citazione di Plinio, le “rècie” (“orecchie”) dei grappoli appese ai tralicci, la tradizione che profuma di frutta secca e stanze fresche d’inverno. Bellissimo.
Ma intanto il Recioto, in Valpolicella, pesa lo 0,6% delle bottiglie (la produzione media annuale oscilla tra 400 e 500 mila bottiglie). Zero virgola sei. È il numero che punge. È il segnale che abbiamo lasciato sfilacciare un patrimonio mentre correvamo, con buone ragioni economiche, dietro all’Amarone e mentre il mondo abbassava i consumi di vini dolci. Il risultato? Un vino identitario relegato a “sfizio”, due dita nel calice, grazie e buonanotte.
Il Presidio alza l’asticella con regole più restrittive rispetto alla DOCG: niente diserbo chimico, uve da vigne di almeno quindici anni, appassimento in fruttaio per almeno cento giorni senza forzature, solforosa molto bassa, messa in commercio non prima di cinque anni dal raccolto (con almeno un anno di bottiglia), impegno a conservare i terrazzamenti e il paesaggio storico. Tutto condivisibile. È il minimo necessario per ridare spessore a un vino che sa invecchiare come pochi. Ma non basta un bollino per invertire una traiettoria di vent’anni. Serve cambiare testa. E cambiare mestiere, in parte.
La ristorazione, per cominciare. Se il Recioto torna in carta solo nel capitolo “dolci”, abbiamo perso. Il gioco vero si fa con il salato: fegato alla veneziana, anatra (sì, quella laccata funziona davvero: contrasto, speziatura, dolcezza naturale), fois-gras, formaggi erborinati e caprini maturi, cucina asiatica con salse scure, spezie, tamarindo. Anche cacao e pepe: sorprendono, non stancano. Il Recioto accompagna, non chiude. Basta con l’ombrello zuccherino di fine pasto. Va proposto al centro del menù, a bicchiere, con porzioni intelligenti. Qui la ridondanza è voluta: bicchiere, bicchiere, bicchiere. Senza mescita non si cambia percezione.
Poi i produttori. Lo so che l’Amarone assorbe le uve migliori dell’appassimento, lo so che il rischio economico si pesa a fine vendemmia e non nei convegni. Ma se il Recioto vuole rinascere, bisogna smettere di alimentarlo con le briciole. Non ogni anno: solo le annate che lo meritano, come indica il Presidio. Però quando si decide di farlo, bisogna puntare alto: selezioni vere, non “quel che avanza”. E servono cantine disposte a vincolare capitale nello stock. Recioto è pazienza liquida, non si misura in trimestri. Mettiamola così: una micro-libreria di annate vecchie in ogni azienda, rilasci scanditi, verticali ufficiali, pacchetti degustazione. Meno parole, più bottiglie mature sul tavolo. Il mercato lo capisce.
Sul prodotto, due cose chiare. Primo: identità stilistica. Tradizione sì, ma leggibile oggi. Quindi dolcezza integrata, acidità viva, alcol sotto controllo, estrazione misurata. La profondità non è peso, è spessore. Secondo: comunicazione tecnica senza poesia di maniera. Raccontare cos’è un appassimento ben fatto, le differenze tra fruttaio e appassimento forzato (che qui è escluso), perché la selezione di vigne vecchie cambia il quadro aromatico. Meno “fiaba”, più “come ci arrivo”.
Il Consorzio di Tutela (e qui allargo lo sguardo) potrebbe fare tre mosse semplici e toste:
Benchmark internazionali: mettere il Recioto a confronto con Tokaji, Sauternes, Banyuls, Vin Santo, Madeira. Non per imitarli: per spiegare cosa lo rende unico. Degustazioni comparative, materiale didattico per sommelier e buyer.
Canale mescita: spingere davvero il by-the-glass con programmi di co-marketing su ristoranti e wine bar selezionati in città chiave (Italia ed estero). Materiali, formazione, pricing dedicato.
Enoturismo serio: “Recioto Rooms” in cantina, piccole sale per verticali da 30 minuti, ticket chiari, calendario fisso. E abbinamenti con cibi salati (vedi sopra - e basta salumi formaggi e sbrisolona). Il turista del vino compra esperienza prima di comprare bottiglie.
Distribuzione: niente dumping. Il Recioto non deve costare poco “perché è dolce”. Deve costare giusto per le sue complessità e per il tempo immobilizzato. Posizionamento netto, non sconti selvaggi online, coerenza tra canali. Se un buyer estero chiede identità italiana, dategli la storia insieme alla bottiglia: appassimento, colline, muretti a secco o marogne, manualità. Non gadget. Un PDF serio con tre dati di produzione, uno schema di servizio (12–14 °C, non ghiacciato), tre abbinamenti salati e uno dolce solo se insistono. E stop.
Mi piace l’idea, citata nel comunicato, della “versione invecchiata” che si è persa per strada. È lì che il Recioto diventa tridimensionale: la trama si fa fine, il frutto si asciuga, il naso prende terra e spezie, arriva quel tocco balsamico che non ingombra. Perché non reintrodurre ufficialmente questa categoria, con parametri chiari? Non una nostalgia: una via di qualità. E magari un piccolo contrassegno visivo, semplice, leggibile. Nessun oro barocco, grazie.
Un accenno tecnico sulla campagna: la richiesta del Presidio di vigne di almeno quindici anni e niente diserbo chimico non è folklore. Sono condizioni che si sentono nel bicchiere: equilibrio, suoli vivi, piante che “leggono” l’annata. L’appassimento minimo di cento giorni, senza scorciatoie, evita quella sensazione di frutta sciroppata che stanca e che ha fatto danni d’immagine. La solforosa bassa va bene, se il lavoro a monte è rigoroso: pulizia, ossigeno dosato, legno senza profumi urlati. Chi vuole il profumo di vaniglia cerchi altrove.
Sulla comunicazione: raccontare il Recioto come “vino delle feste” è un errore. Funziona a Pasqua e a Natale? Certo. Ma corre tutto l’anno se lo sposti in altri momenti: cucina speziata a casa, formaggi importanti, serata cinema con cioccolato fondente non zuccherato (provare per credere), aperitivo “scuro” con fegatini o stinchi glassati, cocktail minimal da servizio “Recioto & Soda” per sgrassare (eretico? Forse. Ma più utile di mille slogan). Sì, ho scritto cocktail. Se un rituale aiuta a uscire dalla nicchia, valutiamolo senza snobismo.
Ultimo punto: formazione. Non ai consumatori soltanto. Ai venditori. Molti professionisti non hanno mai assaggiato Recioto seriamente, men che meno in verticale. Come vuoi vendere qualcosa che non conosci? Qui tornano utili le sette aziende del Presidio: fate squadra. Portate in giro tre annate ciascuno, set tecnico, due ore scarse, dieci città. Quando i ristoratori capiscono che un calice di Recioto ben servito fa margine e fidelizza, la rotazione in carta decolla. È aritmetica, non poesia.
Il calendario dice che la prima tappa ufficiale sarà la Slow Wine Fair 2026 a Bologna da domenica 23 a martedì 25 febbraio 2026. Bene. Da qui ad allora c’è un tempo prezioso per impostare il rilancio. Non per lucidare il recinto, ma per aprire i cancelli. Il Presidio è un inizio, non un punto d’arrivo. Se lo trattiamo come un “parco faunistico del gusto”, avremo perso l’occasione. Se lo trattiamo come una scommessa collettiva—vigna, cantina, sala, distribuzione—il Recioto torna dove deve stare: al centro della tavola, della conversazione, della memoria.
Perché alla fine è semplice: un territorio vive se i suoi vini vivono nel quotidiano, non solo nei racconti. Mettiamola giù dura: meno hashtag nostalgici, più bottiglie giuste nei calici giusti, al momento giusto. Il resto verrà. E quando berremo un Recioto di dieci anni, servito a metà pasto, con un piatto che non ammicca ma sostiene, capiremo che no, non c’era bisogno dello zoo. Serviva coraggio. E un po’ di fame. Sempre quella, la fame buona delle cose fatte bene.