Musei del vino: vetrine o motori di cultura?

Dalle ambizioni di Verona alle lezioni di Bordeaux, Porto e Rioja: riflessioni sul ruolo dei wine museum

La Cité du Vin di Bordeaux è uno dei wine museum più noti al mondo, con una struttura architettonica iconica affacciata sulla Garonna - foto ©Axelferis XTU architects


In Italia sta nascendo qualcosa di grosso nel mondo del vino, e stavolta non è l’ennesima super bottiglia da collezione. Parlo del Museo Nazionale del Vino che sorgerà a Verona, promosso dalla Fondazione MUVIN.

Sulla carta c’è da essere entusiasti: un progetto culturale “unico nel suo genere” (parola di Diego Begalli, presidente MUVIN) che punta a esplorare la cultura del vino a 360 gradi, con un percorso esperienziale high-tech in 17 sezioni. L’ambizione dichiarata? Mettersi allo stesso livello delle migliori best practice europee come la Cité du Vin di Bordeaux, il WOW (World of Wine) di Porto o il Museo Vivanco in Spagna. Insomma, finalmente anche l’Italia vuole la sua Città del Vino e Verona sembra il luogo prescelto. I numeri previsti fanno girare la testa: 350 mila visitatori all’anno a regime, 80-130 nuovi posti di lavoro creati e un fatturato stimato di 6 milioni di euro (che potrebbe salire a 12 milioni in dieci anni). Niente male, vero?

E fin qui, tutto bellissimo. Ma da osservatore del vino, qualche domanda mi sorge spontanea: questi grandi musei del vino sono davvero strumenti per far crescere cultura scientifica e comunità inclusive intorno al vino, o rischiano di essere solo enormi vetrine scintillanti?

Il rischio dell’approccio top-down è di creare cattedrali luccicanti (o decanter giganti, nel caso di Bordeaux) calate dall’alto, più foto-spot per turisti che motori di conoscenza ed economia locale. D’altro canto, con un comparto come il vino che è patrimonio italiano, sarebbe da pazzi non tentare di valorizzarlo anche con un museo di livello mondiale. Vediamo allora cosa possiamo imparare dai casi europei citati, mantenendo un tono costruttivo ma un filo critico – perché volere bene a un’idea significa anche esaminarne i punti deboli.

La lezione di Bordeaux: i francesi ci sono arrivati prima, inutile girarci attorno. La Cité du Vin ha aperto a Bordeaux nel 2016, frutto di un investimento da 81 milioni di euro. Dietro c’è stata una convergenza di volontà pubbliche e private davvero notevole: fondi UE, Comune di Bordeaux (che da solo ha coperto quasi il 38% del capitolo di spesa), Governo francese, Regione Aquitania, il potente Consorzio dei vini di Bordeaux, la Camera di Commercio… tutti insieme appassionatamente a mettere soldi e idee. L’idea di base, come spiegò il direttore della Fondazione per la Cultura del Vino, Philippe Massol, era di creare un magnete per l’enoturismo nazionale. Ci sono riusciti? Pare di sì: la regione di Bordeaux, grazie anche a queste iniziative, ha triplicato i visitatori in 15 anni (da 2 a 6 milioni) e il museo da solo punta ad attirarne circa 450 mila l’anno. Numeri da capogiro, che fanno quasi venir voglia di chiudere qui il discorso e dire “viva i musei del vino!”. E bisogna riconoscerlo: la Cité du Vin è un’esperienza world-class, immersiva, divertente e seria allo stesso tempo, capace di affascinare sia i profani sia i wine nerd incalliti. Tra percorsi multisensoriali, realtà virtuali, installazioni artistiche e persino sezioni “vietate ai minori” sul rapporto vino-seduzione, i francesi hanno realizzato un luogo davvero originale. Ci entri e per 3-4 ore (minimo) ti perdi tra vigneti virtuali, tavoli dei terroir interattivi, simulazioni di viaggi in mare ottocenteschi per esportare vino, banchetti virtuali con Napoleone e Churchill, e buffet dei 5 sensi dove annusare, toccare e ascoltare oggetti legati al vino. Alla fine sali all’ottavo piano, prendi un calice di vino (incluso nel biglietto) e ti godi la vista a 360° su Bordeaux dalla terrazza: applausi.

Tutto risolto dunque? Mica tanto. Non tutti a Bordeaux sono soddisfatti fino in fondo. Passati i primi anni di entusiasmo e fiumi di visitatori, in città si manifestano dubbi sulla sostenibilità economico/finanziaria a lungo termine della Cité du Vin. Si teme che, dopo la sbornia iniziale, possa faticare a connettersi con il resto della città, rischiando di restare un’entità un po’ scollegata. Insomma, la classica domanda: finita la novità, riuscirà a restare rilevante? Per evitare che diventi una cattedrale nel deserto (o meglio, un decanter d’oro vuoto), serviranno continui investimenti per mantenerla aggiornata, eventi, mostre temporanee, attività fresche che richiamino i locali oltre che i turisti. Il ruolo del settore pubblico qui non è solo aver messo i soldi iniziali, ma anche continuare a sostenere l’integrazione del museo nel tessuto culturale cittadino. Per ora a Bordeaux paiono decisi: attorno alla Cité stanno sorgendo un intero quartiere nuovo, incubatori di start-up del vino, e il calendario di eventi del museo è fitto e invitante. Insomma, i francesi ci credono e fanno sistema – con quella grandeur un po’ spocchiosa che li contraddistingue, certo, ma efficace. Da notare un dettaglio mica da poco: l’idea della Cité du Vin nacque già nel 2008 in ambiente politico locale bipartisan, con il sindaco Alain Juppé che poi fece da catalizzatore. Ci hanno messo quasi un decennio a realizzarla, ma con visione condivisa e continuità. Ecco, da noi in Italia spesso i progetti muoiono cambiando giunta comunale... qui invece la cosa è andata in porto con tenacia.

Voliamo a Porto, Portogallo. Qui la storia è diversa: a prendere l’iniziativa non è stato il governo, bensì un grosso gruppo privato del vino. Il progetto WOW – World of Wine è praticamente un parco tematico del vino (e non solo) inaugurato nel 2020 a Vila Nova de Gaia, dall’altra parte del fiume rispetto a Porto. Qualcuno lo ha definito “un Disneyland per adulti” a tema enogastronomico, e in effetti l’approccio è dichiaratamente ludico oltre che culturale. Immaginate: sette musei interattivi in uno (dal Wine Experience al Planet Cork sul sughero, fino al Museo del Cioccolato e a uno spazio fashion), più una dozzina tra ristoranti e bar, enoteca, una scuola del vino, negozi, aree eventi... un investimento privato di circa 100 milioni di euro per riqualificare le antiche cantine del porto e trasformare la zona in un quartiere turistico-culturale integrato. Dietro c’è il gruppo Fladgate Partnership (quelli di Taylor’s, per intenderci) guidato da Adrian Bridge, che ha visto l’opportunità: fare di Porto una destinazione culturale oltre che terra di vino, raccontando sia il vino Porto sia la storia della città e le sue tradizioni. Anche qui, comunque, i visitatori sono arrivati in massa: si parla di “centinaia di migliaia” di turisti ogni anno attirati da WOW. Il successo come attrazione c’è, la vista panoramica su Porto pure (dal piazzale centrale del complesso si gode uno skyline notevole). Ma viene naturale chiedersi: un modello del genere quanto incide sulla crescita di cultura e comunità locale del vino? Da un lato, WOW dà lavoro a circa 400 persone e ha ridato vita a edifici storici in disuso – quindi un impatto economico e urbanistico positivo c’è stato. Dall’altro, essendo un progetto nato dall’alto (anzi, da un singolo grande attore privato) è inevitabilmente orientato al profitto e al consumo: biglietti, shop, ristoranti stellati. Nulla di male, ovviamente; però l’enfasi è sull’esperienza “fun” immediata. C’è anche una “Wine School” per degustazioni e corsi, segno che un po’ di didattica c’è, ma siamo comunque nel campo dell’edutainment spinto. Il ruolo del pubblico qui? Più che altro quello di spettatore – il comune di Porto avrà supportato in termini di permessi e magari promozione turistica, ma il timone è saldamente in mano privata. Una differenza importante rispetto a Bordeaux: se lì il museo è gestito da una Fondazione no-profit con missione culturale, a Porto è un’impresa privata che deve rientrare dell’investimento. E infatti WOW è pensato per far spendere il visitatore medio in diverse attrazioni e locali. È un modello replicabile in Italia? Difficile, servirebbe un colosso del vino disposto a fare da mecenate-investitore su questa scala. Al momento, meglio puntare sulla formula pubblico-privato classica.

E poi c’è la Spagna, con il caso Vivanco. Qui cambiamo completamente scenario. La Fondazione Vivanco in Rioja nasce dall’amore di una famiglia di produttori per la storia e l’arte del vino. Hanno messo insieme per decenni una collezione sterminata di oggetti, libri, documenti e opere d’arte sul vino, e nel 2004 l’hanno trasformata in un museo della cultura del vino a Briones, accanto alla loro cantina. Niente archistar, niente realtà virtuale ultimo grido: il Museo Vivanco è un tuffo nella civiltà del vino attraverso 8000 anni, con oltre 6000 reperti esposti su 4000 m², dalle anfore fenicie agli attrezzi contadini, fino ai dipinti di Picasso e Sorolla sul tema del vino. In più c’è un Centro di Documentazione fornitissimo, la più grande biblioteca al mondo sul vino. Su questo fronte, va detto, gli sforzi Vivanco evidenziano una realtà: la ricerca sulla storia del vino è poca e poco frequentata, e anche se loro hanno messo insieme 9000 volumi e 10.000 foto d’epoca, sono pochi gli studiosi che ne approfittano (una cinquantina l’anno appena). Il grande pubblico preferisce girare il museo (75 mila visitatori nel 2017, tra 90 mila e 110 mila visitatori stimati all’anno negli ultimi tre anni: fin dalla sua apertura nel 2004, il museo ha superato il milione di visitatori complessivi) e magari saltare la sala di lettura – comprensibile, ma almeno quel patrimonio di conoscenza è stato raccolto e reso disponibile. La famiglia Vivanco ha capito che per costruire cultura serve tempo e pazienza: ha creato laboratori ed attività didattiche per spiegare il vino ai bambini, insegnando loro da piccoli le basi (profumi, gusto del succo d’uva, storia della vite) attraverso il gioco e l’arte. Altro che “il vino ai minori è tabù”: loro formano futuri adulti consapevoli, in modo intelligente e ovviamente senza far bere i ragazzini. Inoltre la Fondazione collabora con l’Università di La Rioja, ha istituito l’Aula Pedro Vivanco per promuovere studi sulla cultura del vino e corsi di formazione congiunti. Ha pure un Consiglio dei Patroni con personaggi di spicco (da Ferran Adrià a noti storici e medici) che portano competenze diverse al progetto. Tutto questo, nota bene, senza pescar soldi pubblici – i Vivanco hanno preferito non dipendere da sussidi statali, ma fare rete con altri partner privati e istituzioni culturali, mantenendo indipendenza. Il museo di Vivanco è considerato uno dei migliori al mondo tra gli appassionati proprio perché autentico (personalmente l’ho visitato due volte), ricchissimo di contenuti reali (ci sono persino vigneti didattici con 220 varietà di viti da tutto il mondo), e animato da uno spirito di ricerca e condivisione genuino. Certo, non avrà i flussi di Bordeaux o Porto – Briones è fuori mano e i Vivanco non miravano a fare mezzo milione di ingressi – però rappresenta il modello opposto: dal basso, guidato dalla passione e dalla competenza, orientato a creare conoscenza più che spettacolo.

A questo punto, tornando a Verona e al nascente Museo del Vino, abbiamo davanti una bella scelta di approcci. Sembra che MUVIN voglia prendere un po’ da Bordeaux (la dimensione internazionale e immersiva) e un po’ da Vivanco (l’approfondimento culturale). Già il fatto che i promotori parlino di edutainment e innovazione tecnologica, ma allo stesso tempo abbiano creato una Winepedia con 100 schede didattiche online e un Comitato Scientifico di professori e esperti, fa ben sperare.


MUVIN - Alcuni “rendering” del percorso di visita
©Studio Ardelli Fornasa Associati - Arch. Mirko Scaratti


C’è l’idea di hub partecipativo, di dialogo intergenerazionale, di integrazione tra digitale e analogico nel percorso museale. Tutte parole sacrosante – poi bisognerà tradurle in pratica, ma intanto sono nella direzione giusta. Va anche riconosciuto che a Verona il progetto MUVIN è riuscito in quello che altrove in Italia spesso fallisce: mettere d’accordo tutte le associazioni del vino e dell’economia locale. Tra i soci fondatori ci sono Coldiretti, Confagricoltura, i consorzi di tutela (riuniti in AVIVE), le associazioni dei commercianti, artigiani e persino le cooperative. È la prima volta che a Verona (terra del vino e di Vinitaly) tutti questi attori si coalizzano per un’iniziativa culturale comune. Questo dovrebbe garantire un coinvolgimento diffuso del settore: le cantine private e i consorzi avranno voce in capitolo, si spera non solo per finanziare ma anche per arricchire i contenuti del museo con le loro storie, i loro archivi, magari prestando pezzi o collaborando a eventi.

E qui tocchiamo un punto cruciale: come saranno selezionati e gestiti i professionisti del museo? Un conto è fare il progetto architettonico figo (a proposito, il concept architettonico presentato promette spazi flessibili, un parco urbano intorno, insomma un museo vivo e non un “contenitore” isolato). Un altro è far funzionare il museo anno dopo anno. Serviranno direttori capaci, curatori preparati sia sul vino sia sulla museologia, educatori per le scuole, comunicatori. Non ce ne voglia il classico politico di turno, ma non basterà mettere un “amico di qualcuno” alla guida: qui servono competenze vere. Il fatto che Costa Edutainment – il gruppo che gestisce realtà come l’Acquario di Genova e altri musei moderni – si sia dichiarato disponibile a candidarsi per la gestione operativa è una buona notizia. Significa che ci potrebbe essere un bando internazionale e la gestione affidata a chi ha esperienza nel settore dei grandi poli museali interattivi. Bene, perché la governance di questi posti è spesso il fattore decisivo tra un museo che decolla e uno che languisce. Selezionare professionisti in base al merito e alla conoscenza, e non solo per appartenenza a qualche ente locale, sarà vitale.

E il pubblico, cosa deve fare oltre a elargire contributi? Beh, qui “pubblico” è inteso come istituzioni. Il ruolo della Regione, dello Stato, del Comune di Verona, non si esaurisce nel mettere soldi (comunque fondamentali: 10 milioni pubblici previsti su 25 totali di investimento). Devono anche creare un contesto favorevole: promuovere il museo all’interno dei percorsi turistici (far sì che ogni turista a Verona sappia che esiste e abbia facilità a visitarlo), integrarlo con le Strade del Vino locali, con le fiere (Vinitaly & co.), con le scuole e le università. Potrebbe diventare sede di convegni internazionali sul vino, base per master universitari in wine business o cultura del vino, e magari piattaforma di lancio per start-up del vino-tech. In Francia, addirittura il Ministero degli Esteri si è mosso per l’enoturismo: Laurent Fabius presentò un piano nazionale e un portale per attirare enoturisti stranieri, e guarda caso lanciò queste iniziative proprio all’inaugurazione della Cité du Vin. Ecco, quel genere di coordinamento dall’alto aiuta eccome. Non vorremmo che in Italia il Museo del Vino resti un progetto isolato: deve essere un perno di politiche integrate su turismo, agricoltura, cultura. Per esempio, potrebbe essere collegato ad altri piccoli musei del vino già esistenti (penso al Museo del Vino di Barolo in Piemonte o al Museo Lungarotti a Torgiano) creando una rete nazionale. Oppure fungere da centro risorse per le cantine che vogliono migliorare la loro offerta enoturistica. Le possibilità sono tante, se c’è visione.

Infine, la domanda forse più importante: cosa ci guadagna la comunità dal museo? La “comunità” intesa in senso ampio: i cittadini veronesi, i produttori locali, i ricercatori, gli appassionati di vino. Un grande museo può diventare un semplice showroom patinato, oppure un motore che anima una comunità composita. Tutte le belle parole sentite a Venezia durante la conferenza – dialogo intergenerazionale, hub aperto, luogo d’incontro – dovranno tradursi in attività concrete che coinvolgano le persone del posto, non solo i turisti di passaggio. Significa aprire il museo alle scuole, ai wine club, alle associazioni culturali del territorio. Organizzare serate di degustazione a tema scientifico, incontri con enologi e agronomi su temi caldi (cambiamento climatico e vino, ad esempio, che a quanto pare sarà uno dei temi chiave esposti). Dare spazio a piccoli produttori per presentare i loro vini poco noti, affiancandoli magari a degustazioni di vini dal mondo per un pubblico curioso. Il museo dovrebbe essere un forum permanente, non un mausoleo. Se resta un bellissimo edificio dove la gente va una volta, fa “wow” e poi non ci torna più, avremo fallito l’obiettivo. Su questo le esperienze altrui sono illuminanti: Bordeaux ha dovuto aggiornare e arricchire l’offerta continuamente, e ancora si domanda come tenere alta l’attenzione dopo l’effetto novità. Vivanco, pur con meno visitatori, ha creato qualcosa di duraturo perché ha messo la comunità (di studiosi, di winelovers, di famiglie) al centro, offrendo contenuti di valore che continuano a richiamare l’interesse di nicchie importanti (ricercatori, studenti, sommelier).

In definitiva, top-down o bottom-up non è un aut aut: un grande museo del vino nazionale ha bisogno di entrambe le cose. La spinta dall’alto serve per costruire la “grande vetrina” – e non c’è dubbio che a Verona la stanno allestendo con tutti i crismi, con tanto di architettura accattivante e tecnologie immersive per stupire il pubblico. Ma poi quella vetrina va riempita di sostanza e tenuta viva dal basso, dalla gente che la anima. Bisogna che questo Museo del Vino diventi sì un’attrazione per turisti (e lo sarà, speriamo), ma anche un luogo in cui chi vive e lavora col vino si riconosca e partecipi. Che coinvolga i produttori non solo al taglio del nastro, ma nella programmazione annuale; che gli accademici non stiano solo nel comitato scientifico sullo statuto, ma organizzino conferenze, portino studenti; che i wine lovers veronesi sentano il museo come casa loro, un posto dove andare a divertirsi e imparare, magari a dire anche la loro (perché no, con installazioni interattive che raccolgono i contributi del pubblico – hanno parlato addirittura di sezioni plasmate dai visitatori tramite AI, staremo a vedere).

Dal mio canto, faccio il tifo perché Verona non sprechi questa occasione. Ho in mente un’immagine un po’ romantica: il museo come ponte tra passato e futuro del vino, non un monumento autocelebrativo ma un laboratorio continuo. Per citare la frase-guida che aprirà proprio il percorso espositivo veronese: “Il vino ha cambiato il genere umano più di quanto il genere umano abbia cambiato il vino”. Ecco, se il nuovo Museo del Vino saprà trasmettere questa duplice verità – da un lato le radici storiche profonde del nostro rapporto col vino, dall’altro le sfide attualissime e globali che attraverso il vino possiamo leggere (geopolitica, clima, innovazione) – allora sarà davvero all’altezza delle sue promesse. Ma dovrà farlo coinvolgendo tutti gli attori in gioco, pubblici e privati, grandi e piccoli, tecnici e appassionati. Una grande vetrina va bene, ma dietro il vetro ci dev’essere un cuore che batte.

Verona può prendere esempio da Bordeaux per la scala internazionale, da Porto per la creatività nell’intrattenere, e da Rioja per la profondità culturale e scientifica. Se mescoleremo bene questi ingredienti, potremmo ritrovarci con un museo che non è solo un’attrazione da cartolina, ma un vero motore di cultura, scienza ed economia del vino italiano. E, lasciatemelo dire, ce n’è un dannato bisogno.

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