Terry Hughes incontra un importante operatore a Manhattan, New York. Ecco il suo racconto.
La prima e seconda parte le trovate qui e qui.
Sergio Esposito, titolare del Italian Wine Merchants di New York, è un giovane con una meta: aggiornare il
posizionamento del vino italiano in America. “Gli
Italiani erano dieci-venti anni fa dove sono gli Australiani d’oggi. Il palato Americano comincia a cambiare, e i vini pesanti dolciastri perdono share.” (Recentissime notizie dall’Australia confermano
questa tendenza nel calo di vendite negli USA).
“L’acidità ritorna!” aggiunge Esposito. Crede assolutamente nei vitigni autoctoni meridionali (e pure delle altre regioni), che sono ben dotati dei sapori e profumi oramai sconosciuti a tanti Americani. Gli stessi Americani vogliono abbinare vino e cibo invece di bere per bere. In questo senso l’Italia è davvero Enotria, e la combinazione cibo-vino rafforza l’immagine popolare del bel lifestyle italiano, benchè sembri effimero da voi, minacciati come siete dall’orda d’oro di idraulici polacchi.
Comunque, Sergio passa 4-5 mesi all’anno cercando buoni prodotti che piaceranno ai suoi clienti affluenti e sofisticati. Nato a Napoli ed emigrato negli USA a sette anni, viaggia in tutte le regioni d’Italia per scropire novità per il consumatore newyorkese. Nel presente momento, Sergio ammonisce che tutte le regioni non si aggiustano a un ritmo competitivo, per esempio Basilicata, Veneto e le Puglie. Nel momento attuale non offre nulla di queste regioni; però Campania, Sicilia, Sardegna e Abruzzo fanno strada; ne vende tanti di questi vini di alta qualità. Insomma, “la situazione attuale è ottima per i vini italiani. Le cose vanno così bene che potremmo solo incasinarle.”
Secondo Sergio, il progresso dei vignaioli italiani qui in America è
andato avanti a scatti. “I vitigni nobili hanno spesso deluso il
consumatore americano—e la intensa pubblicità su alcune nuove vigne,
per esempio nella Maremma, non ha sempre predetto la realtà mediocre.
Sovrapproduzione,
niente terroir”.
Sergio fa nomi, criticando severamente certi vignaioli abbracciati
dai critici della stampa del vino americana. Non faccio, io, questi
nomi; è sufficiente riportare che si riferisce a parecchi celebrity winemakers
del Friuli, della Toscana e del Piemonte, esponenti dello stile
internazionale, bombe-frutto, prezzi mozzafiato e via dicendo. Questi
vignaioli vanno alla ricerca ossessionata dei 100 punti, che pure
valgono una “paperonata” di euro e dollari. Compromettono il loro
posizionamento ogni volta che inseguono un’altra tendenza del mercato.
E questi sono i campioni mondiali del vino italiano.
Rimarca Sergio quali sono i vignaioli che, secondo lui, non hanno mai abbandato le migliori tradizioni vitivinicole: Bartolo Mascarello e i fratelli Fantino. “Mascarello non ha seguito il trend del Barolo. Produce un ottimo Barbera da sempre, meno costoso del Barolo.” Di Alessandro e Gian Natale Fantino dice, “fanno un Nebbiolo purissimo — la purissima espressione del vitigno”.
Posizionamento da grand cru classé
Esposito sostiene che la qualità attuale è molto superiore rispetto al passato, e gli piace il rapporto qualità/prezzo dei vini italiani in generale. Ma, come abbiamo già accennato, la rosa della concorrenzialità mondiale porta con sè la spina di un’identità non sempre chiara. Il linguaggio delle etichette fa problemi per il consumatore straniero. Troppo spesso il posizionamento ed il marketing sembrano scoordinati. “Gli Italiani tentavano di sviluppare un marchio nazionale negli anni 80. Ma questo non serve. Fanno così i cileni: e se si pensa come loro, si produrrà vini come i loro. Ecco, non si potrebbe mai standardizzare l’Italia. Non capiscono cosa vuol dire branding. E’ pericoloso — il consumatore non lo puoi confondere per troppo tempo.”
Deve accorgersi sempre della tensione buone/cattive notizie, che sono miscelate nelle parole di Esposito, rendendo molto difficili conclusioni e ricette per la correzione. Certo è consapevole, sia nelle sue critiche della situazione attuale, sia nel suo business model — davvero nuovo rispetto al vino italiano. Facciamo una pausa, qui, perchè bisogna offrire qualche good news.
L’Italian Wine Merchants è un’enoteca di modeste dimensioni — niente supermercato del vino, come l’Astor Wines — comprende il negozio e una sala degustazione di stile discreto. Ma la maggior parte del business è invisibile, occupando il sesto piano dell’edificio: là si trovano i portfolio managers. Analoghi ad agenti di borsa, collaborano con i clienti nel selezionare investimenti assortiti, sia vino da consumare sia vins de garde. Prezzo della bottiglia media: $60.
Evidentemente, il business model è basato sull’idea che i vini d’Italia siano degni d’investimento e per di più prestigiosi. La novità è che, vent’anni fa, quest’idea valeva solo per i crus classificati di Bordeaux e di Borgogna. Così sono ascesi i vini italiani nel mercato Americano. E’ importante la sua fetta del mercato, perchè “i collezionisti sono opinion-makers. Altri consumatori seguiranno. E i collezionisti amano i vini autoctoni”.
Bravo, sono vendicato. Un mese fa ho dichiarato “la salvezza viene dal Mezzogiorno.” Forse non ripete esattamente Sergio ciò che ho scritto. Ma certo, il posizionamento del vino italiano si appoggerà sui vitigni che, cinquant’anni fa, cadevano come un corpo morto cade. Sostenitori come lui e i suoi collezionisti daranno una vita nova (mi piace, Dante) a un fattore essenziale dell’identità autentica italiana.
Ecco due commenti finali di Sergio Esposito: “Ho 37 anni, lavoro nella filiera vino da quando ero 15enne, e ti assicuro che, assolutamente, non sono della ‘nuova generazione’. La mia specialità è il vino classico del mio Paese, e ciò ti garantisco che lo conosco a fondo”. Infine: “Sono napoletano, e siamo di natura molto emotivi, che è ciò che ti occorre per sentire il vino”.
Non sentite il germoglio del riposizionamento in queste parole?
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Le foto di questo post (a partire dall'alto):
1. un'immagine di Manhattan, verso Sud, dalla finestra di casa di Terry Hughes;
2. Sergio Esposito;
3. Un'immagine esterna del Italian Wine Merchants.