Web tax, pasticcio all'italiana

Web tax, pasticcio all'italiana

Scusate l'apparente off-topic di questo post ma, al contrario di quanto molti possano pensare, l'economia del vino non è avulsa dall'economia digitale.

Non si può ignorare: è sempre più popolare la richiesta di una tassazione specifica - la "web tax" - per tutte le imprese e piattaforme di servizi basati su Internet. Secondo questa visione, l'economia digitale sarebbe cosa diversa dalla tradizionale, quindi occorrerebbe una tassazione dedicata.

Francesco Boccia, presidente della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati, della web tax da anni ne sta facendo il proprio cavallo di battaglia. Boccia ha più volte provato a introdurla con disegni di legge o emendamenti nascosti all'interno di decreti legge omnibus. La web tax già fu respinta dal governo dell'ex premier Matteo Renzi, quando si invocò in extremis un coordinamento a livello internazionale e in particolare europeo circa nuove imposizioni fiscali da imporre alle multinazionali dell'economia digitale, ree di aver inventato la digitalizzazione delle economie e la smaterializzazione della presenza fisica per operare in un'area geografica, sia essa un paese o un continente.

Intendiamoci, Francesco Boccia non è il solo paladino della web tax, la compagnia è vasta e trasversale a tutti i gruppi parlamentari, così come a molti gruppi di interesse organizzati o imprenditoriali, tutti impegnati a contrastare i cambiamenti così destabilizzanti per le numerose posizioni di rendita e privilegio di molti settori decotti e prossimi a essere travolti dall'economia digitale.

E in queste ore Boccia e alleati ci riprovano con un altro emendamento collocato nella cosiddetta manovrina di aggiustamento dei conti pubblici. 

«E' sempre più popolare pensare che la pietra dello scandalo della questione fiscale siano le imprese del web. Tassare Google o Facebook non risolverà nulla delle distorsioni fiscali a cui siamo sottoposti, ma trovare un capro espiatorio è sempre una consolazione. Non è facile individuare un criterio per tassare imprese dematerializzate né un criterio per dire quando un impresa è digitale. l governi lo sanno, ma intanto costruiscono i loro castelli di sabbia»

osservano gli esperti dell'Istituto Bruno Leoni, il centro studi sulla difesa della concorrenza e della libertà di mercato, in una nota diffusa oggi.

Per chi volesse approfondire, lo stesso Istituto Bruno Leoni ha reso disponibile un interessante documento di analisi, il paper «Web tax: solo una soluzione internazionale può evitare un pasticcio all'italiana» a cura di Piercamillo Falasca e Francesco Del Prato. Gli autori ripercorrono i motivi, i luoghi comuni, i rischi e le proposte di una tassazione ad hoc dell'economia digitale, fino all'emendamento Boccia oggi andato in porto.

Di questo paper - visibile e liberamente scaricabile qui in formato PDF - cito due passaggi chiave (il grassetto nel testo è mio):

«In un'industria tanto 'acerba', caratterizzata da un tasso di innovazione tecnologica altissimo e una concorrenza serrata ed estremamente fluida, scelte di policy avventate, parziali o adottate in maniera unilaterale da alcuni paesi rischiano di avere conseguenze gravi e durature in termini di influenza nelle scelte d'investimento delle imprese. Un rischio, questo, che non riguarda solo le grandi multinazionali, ma che può avere ricadute a cascata - per i suoi effetti sul mercato - anche sulle imprese più piccole in rapida fase di crescita e sviluppo.

(...) L’argomento secondo cui le grandi società globali del web pagherebbero “poche tasse” rappresenta comunque il principale movente delle proposte di diversa e maggiore tassazione, in Italia e non solo (...) Nel formulare queste teorie, però, si tende a trascurare gli effetti a cascata sui consumatori di un maggior prelievo fiscale sulle imprese del web. E' infatti inevitabile che una più alta tassazione possa indurre le imprese in questione a scaricare i maggiori oneri sui consumatori, aumentando i prezzi dei propri servizi o rendendo, ad esempio, a pagamento servizi prima offerti gratuitamente o a tagliare i servizi a più bassa redditività. In più, quando si immaginano soluzioni nazionali non contestualizzate nel più ampio contesto in cui tali imprese operano, si trascura il disincentivo agli investimenti e alla stessa presenza di quelle imprese nel mercato italiano. Con una battuta, si può dire che almeno dal 1899 – con gli studi di Edwin Seligman – sappiamo che le imprese in realtà “non pagano le tasse”, che finiscono per essere traslate su consumatori, lavoratori e azionisti (che per le società quotate, sono spesso piccoli azionisti e fondi pensione)».

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