Terrano, pensieri su un vino autentico per un Buon Natale
Di ritorno da Trieste, dalla bella occasione offerta da "Teranum 2011", dichiaro che uno dei primi impegni da eno-turista che Aristide si prenderà nel 2012, è quello di tornare sul Carso triestino, e abbandonarsi per un week-end alla ricerca della "osmizza perfetta".
Osmizza (o "osmiza", in sloveno "osmica") è, per noi baccanti, il luogo del rito ancestrale, officiato là dove tutto nasce, ovvero nella cantina e a pochi metri dalle viti. E' l'occasione perfetta: in origine era un diritto relegato a soli otto giorni ("osem" significa "otto", da qui "osmizza"), tanti erano quelli previsti da un imperiale decreto del 1784 emanato da Giuseppe II d’Asburgo, otto giorni all'anno, nei quali le cantine potevano vendere al pubblico il proprio vino sfuso. E uova, carni, salumi, frutta. Unica condizione richiesta era (ed è tutt'ora) l'esposizione di una frasca a indicare la presenza di una osmizza aperta nel villaggio, tradizione che viene fatta risalire all'epoca di Carlo Magno.
E un viaggio tra le osmizze del Carso triestino, inevitabilmente richiede un confronto con uno dei vini più tipici, radicati nella cultura locale, ostici al forestiero: il Terrano, o Teran, come lo chiamano da quelle parti. Il vitigno è una varietà del Refosco, di casa nel Carso italiano e sloveno, come in tutta la penisola Istriana.
La caratteristica saliente che marca il Terrano è la terra rossa sulla quale cresce, la terra che popola gli strati superficiali della roccia carsica, derivata dalla degradazione delle rocce calcaree, terra ricca di sostanze ferrose, terra fatta di argilla carbonatica, terra spesso riportata in superfice dai vignaioli e sistemata per attrezzare alla coltivazione piccole aree di terreno strappate alla roccia.
L’altra caratteristica è che i triestini e gli sloveni lo amano alla follia, il Terrano. Magari non sarà colpo di fulmine per molti di noi, che non siamo indigeni dell’altipiano carsico. Ma col tempo e la giusta educazione, soprattutto al gusto del cibo locale, si può senz’altro comprendere questo smodato amore per il Terrano.
Sì, perché il Terrano è un vino che tutto è fuorché facile. E' un vino di frutto, senza dubbio, con sentori tra la viola e i frutti rossi di bosco. Peccato che sia preso a calci dai sentori di terra e dall'acidità spesso esagerata (almeno per gli standard ai quali siamo abituati). E' un vino che sicuramente non avrebbe fretta di uscire dalla botte. Ma la tradizione vuole che sia un po' il vino dell'anno, va bevuto di corsa. E giù con l'acidità, che combatti solo con generosa dose di cibi bolliti e non poco grassi.
Poi ti capita, come esattamente capitò un anno fa a "Teranum 2010", di aprire bottiglie pazientemente affinate in cantina. E scopri vini che persino dopo vent'anni sono ancora lì a stupirti con una freschezza tonda e piacevole. Ma non occorre essere tanto estremisti: il Terrano già dopo 5 anni comincia a esprimersi con maggiore equilibrio. Insomma, per dirla schietta, nel mondo del vino anche la tradizione fa le sue belle scempiaggini. Pensiamoci sempre, prima di inneggiare acriticamente alla tradizione.
Tutti aspetti dei quali si è provato a ragionare con alcuni produttori, dato che il tema della giornata del "Teranum 2011" era un'anteprima "estrema" del Terrano 2011 con campioni di vasca provenienti da una delle annate che nel Carso ritengono possa essere "storica": il calo di acidità nelle uve - a causa della siccità e forte anticipo della vendemmia - che in tante regioni italiane ha creato problemi ai vini rossi, qui è stata una provvidenziale occasione per lavorare uve e vini meno acidi del solito.
La degustazione di una dozzina di versioni di Terrano 2011 ha confermato alcune principali differenze:
- la zona più vicina al mare e più bassa di quota - come Prepotto - esprime Terrano "meno acidi", ma questa espressione del Terrano qui non la considerano perfettamente “tipica”;
- quest’ultima nasce sull’altipiano carsico, nella zona più interna, a Sagrado (come l' André Milic Terrano 2011) e in Slovenia. Un esempio è stato lo sloveno Fabec Terrano 2011, il quale, secondo gli indigeni, ricorda il Terrano di 30 anni fa. Fresco, erbaceo, iper-acido, tannico, primordiale...
Occorre ricordare che stiamo assistendo alla conversione oramai quasi completa, nel Carso italiano, ai sistemi di allevamento della vite di Terrano basati sul guyot, che soppianta la pergola. Eppure, il Terrano soffre le scottature, e forse i vignaioli locali si cominciano a porre dei bei dubbi e ripensano ai vantaggi delle vecchie pergole.
Infine, voglio spendere due parole sulle persone che animano le aziende del Carso e sulla relativa concordia e spirito di collaborazione che esiste tra questi vignaioli. Questa è, almeno, l'impressione che ti trasmettono. Magari dietro le quinte si scannano, ma sul palcoscenico rappresentano uno sereno spettacolo di concordia e collaborazione. Girando l'Italia del vino non la trovate quasi mai. Qui sembra essere la regola, qui è la cifra competitiva che regola i rapporti. Tutti uniti e presenti agli eventi consortili, tutti motivati dalla cooperazione tecnica tra le aziende più "esperte", dove gli innovatori e i pionieri non continuano a darsi arie sulla collina, ma sono disponibili e condividono molte, magari non tutte, competenze acquisite.
Un dettaglio su tutti: molte cantine rivendono bottiglie dei colleghi della zona. Un altro dettaglio: credo sia una delle pochissime aree produttive italiane dove non esista una cantina sociale. E non c'è nemmeno un'azienda privata di dimensioni tali da orientare il mercato da posizioni dominanti. Esistono aziende di marchio (Edi Kante, Zidarich, Skerk, Lupinc - i "Prepotto Boys" come mi piace chiamarli, stanno tutti nello stesso villaggio di Prepotto), ma non abusano della loro posizione, anzi.
Cos'altro vi serve per fare un salto sul Carso?