Aristide, il wine blog di Giampiero Nadali

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Nuova Zelanda: sei trend da sfruttare

Wanaka_wineNuovo contributo di Terry Hughes da New York. Buona lettura.

Australia out. Nuova Zelanda in.

Negli Stati Uniti il vino australiano non avanza più con passo trionfale, ma il neozelandese sì. L’importazione negli USA del vino Kiwi cresce di circa il 25% tra il 2003 e il 2004 (mentre l'Australia cala del 26%.). Certo, il volume del vino neozelandese è sempre molto inferiore a quello australiano, ma fatto sta che la Nuova Zelanda sia in “buon odore,” come dicono gli inglesi, e i trendsetters, bastonati dai critici come Jancis Robinson, danno a questo paese la loro benedizione.

Quasi per caso ho accennato a sei fattori d’interesse relativi al vino neozelandese. La lista è forse incompleta, ma eccola comunque.

1. Produzione a piccola dimensione, spesso percepita come artigianale: 600 produttori, 18.112 ettari (fonte: Wine of the Week);

2. Pochi canali di distribuzione all’estero, per meglio controllare gli importatori/GDO, fornendogli prodotti in maniera ordinata e con messaggi coerenti. Il posizionamento dei vini pregiati predomina;

3. Centramento sui vitigni relativamente trascurati, creando con essi versioni nuove, dopo aver rispettato i gaps nel mercato (“si vuole bianco con più acidità e meno rovere, più adatto ad abbinamento con cibi, che vada contrapposto agli Chardonnay californiani, che hanno saturato il mercato”). Così il Sauvignon Blanc era dotato di una nuova energia, svegliando i vignaioli dormienti di Bordeaux (e di California);

4. Sfruttare il trend dei “clima freddo”, cioè sfruttare un vantaggio naturale di quel Paese agli antipodi del mondo. Questione di terroir. Fra due-tre decenni i neozelandesi avranno capito il loro terroir meglio degli Australiani dopo un secolo e mezzo. Trionfo di Pinot Noir nelle nuove vigne;

5. Etichette in inglese, nome di vitigno star dell’etichetta. Occorrono queste informazioni per avere successo — e sopravvivere a lungo — nel mondo anglosassone, e forse anche altrove, nella categoria vini pregiati;

6. Tutto ciò suscita l’impressione, nella mente del consumatore, di essere sulla soglia della scoperta di una regione “sconosciuta” e “in”. Come la California di trent’anni fa e l’Australia di dieci anni fa: esotica ma non troppo.

L'Italia, che produce 45 volte più vino della NZ, può sfruttare gli stessi fattori di artigianalità,  vitigni "dimenticati" e clima freddo.  E l'Italia, fonte di tutto ciò che è di moda e di attraente nel mondo moderno, ha la sua "arma segreta" nel lifestyle italiano, fondata sicuramente su una cucina che è come Raymond. Tutti l'amano. E la Nuova Zelanda, che cosa ci offre?  Il montone?
L'Italia è sempre vincente in tutto ciò che sia mangiare e bere bene.

Come paragonare l’Italia, che produce un oceano di vino, 45 volte più della NZ?

1. Produzione a piccola dimensione, spesso percepita artigianale. Sì, ci sono molti piccoli/medi vignaioli in tutte le parti del Paese.

Domanda: in quale rapporto con i grandi produttori che controllano la distribuzione estera? Sarà possibile il guerrilla marketing tramite gli importatori indipendenti?

2. Pochi canali di distribuzione all’estero, per meglio controllare gli importatori/GDO, fornendogli prodotti in maniera ordinata e con messaggi coerenti.

Domanda ripetuta.

3. Centramento sui vitigni relativamente trascurati, creando con essi versioni nuove, dopo aver rispettato i gaps nel mercato.

Vitigni autoctoni alla riscossa. Ma diverrà il Trebbiano “il nuovo Chardonnay” oppure il nuovo Sauvignon Blanc? Resta da scoprire.

4. Sfruttare il trend verso i “clima freddo”.

Vigne a 500 e più metri, nelle zone fredde del Friuli ecc., è anche un vantaggio italiano. Altro vantaggio: il Nordest rappresenta una nuova frontiera per i turisti americani, popolo che ama frontiere ben domate.

5. Etichette in inglese, nome di vitigno star dell’etichetta.

In altra forma “la questione della lingua.” Il business italiano deve pensare a lungo sul problema: faccia un corso d’inglese, e sarà meno faticoso penetrare anche i mercati dell’Asia.

6. Tutto ciò suscita l’impressione, nella mente del consumatore, di essere sulla soglia della scoperta di una regione “sconosciuta” e “in”. Come la California di trent’anni fa e l’Australia di dieci anni fa.

L’Italia è sempre in, ma certe volte una regione o l’altra sarà di moda. Già il New York Times dedica inchiostro al Centro Adriatico e al Mezzogiorno, ai vini autoctoni e ai viaggi della meta meno commercializzata di un’Italia sempre amata dagli Americani e dal resto del mondo.

7. Cucina favorita internazionale, cucine regionali affascinanti. Ecco il settimo fattore, unico all’Italia con rispetto alla NZ. È questa la piattaforma per un coerente posizionamento del Vino Italiano (se fosse semplicemente tendenza storica o categoria platonica). Mangiar bene è anche bere bene, equazione elementare che solo oggi si comincia a capire in America. Il tempo è giusto.

(Associazione di parole: “Quando ti dico ‘Italia’ che cosa ti viene in mente?”)

In un prossimo post esploreremo le immagini che invocano la magica parola “Italia” qui lontano...

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La foto di questo post ritrae una vigna della tenuta Rippon Vineyard sul Lago Wanaka, una sub-regione del Central Otago, all'estremo sud-ovest della Nuova Zelanda.